Non pensate alle montagne che si sgretolano, alle frane, ai crolli di blocchi di roccia e ghiaccio che si staccano per il troppo caldo. Sto parlando d’altro, sto parlando di persone che ci hanno lasciato, ma che erano veri e propri “pezzi di montagna”, non solo per l’età, ma per la loro storia, le loro conoscenze, perché mantenevano in vita luoghi che, dopo di loro, sono rimasti silenziosi.

Nei mesi scorsi più di uno di questi personaggi se n’è andato, quasi in silenzio. Parlo di quelli che conoscevo io, purtroppo a voi che leggete ne verranno in mente anche altri: uomini, donne, spesso ultimi abitanti di frazioni di mezza montagna, pastori o margari di alpeggi difficili, quelli che forse qualcuno definirebbe “eroici”, ma che per loro, semplicemente, sono stati la realtà a cui erano abituati fin da bambini.

Nei mesi scorsi abbiamo salutato Piero, il pastore del Nivolet, da tutti conosciuto come “il Bersagliè“. Il primo ricordo che ho di lui mi riporta indietro al dipartimento di Agronomia dell’Università di Torino, dove ho lavorato per qualche anno dopo la laurea. All’epoca avevo scoperto il mondo dei pastori vaganti grazie un altro lavoro (il censimento degli alpeggi della Regione Piemonte) e un collega che aveva svolto lo stesso mio incarico in altre vallate. mi disse che aveva incontrato un vero “personaggio” al Colle del Nivolet. Là lo raggiunsi anch’io, insieme a un’amica che mi accompagnava, quando stavo raccogliendo testimonianze per quello che sarebbe diventato uno dei miei primi libri, “Dove vai pastore?”

11 agosto 2005. Piove a dirotto mentre camminiamo sull’ardito sentiero tra le rocce, dirette verso il piccolo gregge. Non ci sono molte pecore, ma nonostante ciò, so che qui dovrei trovare uno di quei “pastori di una volta”. (…) Così scrivevo nel capitolo che lo riguarda. Ha una vaga rassomiglianza con Bud Spencer, il pastore. Volto rubizzo, barba brizzolata, occhi che ammiccano da sotto la falda del cappello in feltro, adornato con una stella alpina. Già in occasione di quell’incontro Piero mi aveva detto di “essersi ritirato”, il suo pascolo vagante non si spingeva più lontano come un tempo, quando con il gregge raggiungeva le colline del Monferrato. Mi aveva parlato anche di problemi di salute, del timore di non riuscire di leggere il libro, se ci avessi messo troppo tempo a scriverlo. Invece il libro che non sono riuscita a potargli è stato un altro, pubblicato quasi 20 anni dopo da quell’incontro, il mio ultimo romanzo “L’ora del pastore”, ambientato proprio sui pascoli del Nivolet…

Piero lo incontrai molte altre volte, alla festa della transumanza di Pont Canavese, sui pascoli della sua Valle Sacra per l’acquisto di un montone, casualmente durante un’escursione a piedi per vedere la fioritura dei narcisi, alle fiere zootecniche e poi ancora al Nivolet, per un’intervista legata a un altro incarico lavorativo più recente. Con lui se n’è andato uno di quei pastori di una volta, di quelli che sapevano ancora parlare il gergo dei pastori, quello usato per non farsi comprendere dai contadini… altro che i pastori di oggi, che pubblicano sui social foto e video!

Se n’è andata anche Lidia, che conoscevo solo di vista, l’avevo incontrata in più occasioni all’annuale rassegna delle capre ad Aosta. Lei partecipava con le sue bellissime capre senza corna, vincendo spesso il premio per la categoria “razza alpina comune”. Che immenso dispiacere non averle mai parlato… Altri mi avevano raccontato brandelli della sua vita, costellata da momenti sicuramente non facili da superare. Mi ero ripromessa più volte di andarla a trovare, ma alla fine non l’ho mai fatto.

Così mi sono ritrovata nel villaggio dove trascorreva parte dell’anno con le sue capre quando lei ormai non c’era più. Che silenzio assordante tra quelle baite in pietra, su quegli scalini consumati dal tempo. Rimanevano solo i gatti ad attendere invano il suo ritorno. C’era chi si prendeva cura di loro portando da mangiare, ma nessuno avrebbe più acceso la stufa sotto quel comignolo annerito.

Il senso di vuoto, passando tra quelle antiche baite in pietra, non l’avevo mai avvertito così profondo. C’erano ancora, in un fienile, le fascine di rami di frassino fatte seccare all’ombra, prezioso cibo invernale per le capre. C’era tutta una vita, lì tra quei muri, ma chi poteva raccontarla ormai se n’era andata. Insieme a persone come lei scompaiono usanze, gesti, storie, nomi di luoghi, capacità e conoscenze.

Non c’è più nemmeno Giuseppina, “la pustina del Furn“, in Val Sangone (TO). Non la conoscevo, ma ho presente il luogo dove abitava, passando lì vicino seguendo un sentiero avevo sentito i cani, le campanelle degli animali. Ho appreso della sua scomparsa attraverso Facebook, dove Elisabetta Bertrand la ricorda con ruvido affetto: “Se vi siete avventurati su per Forno, precisamente in borgata Ferria, non potrete non aver notato capre, mucche, cani e galline con al seguito una vecchietta… che di vecchietta aveva ben poco, la grinta e la tenacia di una ragazzina!! Giuseppina, per tutti la pustina del Furn sempre piena di storie da raccontare, fin da bambina dietro le capre su per L’arp du preve e poi quando portavi la posta per Coazze a piedi. I tempi duri li hai vissuti tutti, ne hai portato i segni ogni giorno e ce li hai insegnati… (…) una cosa è certa : il Forno ha perso una grande persona ,e quella casa senza te non sarà più la stessa. Ti penso lassù dove avresti voluto tornare, tra i tuoi sconfinati monti a cristonare dietro le capre… Fa bun viagi magna Pina”.

Sempre attraverso la rete ho saputo che se n’è andato Eugenio “Ciaval”, margaro che avevo incontrato in un alpeggio della Val Soana, uno di quei posti dove non passano in tanti, anche dal punto di vista escursionistico abbastanza “fuori rotta” per i più. Eppure lassù lui ci ha passato la vita, con la famiglia, i figli e le figlie, nell’anno in cui ero salita io c’era il figlio più giovane con i suoi due bambini. Sentiero lungo e faticoso, pascoli ripidi, la mandria era partita a gran carriera, incitata dal bambino e dai cani, ma al pascolo, con passo lento, era andato Eugenio. Mentre sorvegliava le vacche, lavorava ai ferri, facendo la calza…

Per alcuni di questi anziani montanari c’è qualcuno che raccoglie il testimone delle loro fatiche, ma per altri no, restano solo amici, conoscenti e lontani parenti a ricordarli. Gli animali vengono venduti, si cerca una nuova casa per cani e gatti, si chiudono per sempre le porte di quelle vecchie baite.